Ricerca Avanzata
   Tribunale di Bologna
   Tribunali Emilia-Romagna
   Corte d'Appello di Bologna
   Lo Studio nelle Alte Corti
 
Tribunale di Bologna > Tutela della lavoratrice
Data: 04/02/2002
Giudice: Marchesini
Tipo Provvedimento: Ordinanza
Numero Provvedimento: -
Parti: Bertozzi / Creyf's Interim SpA
LICENZIAMENTO IN PROVA DI LAVORATRICE IN STATO DI GRAVIDANZA - AMMISSIBILITÀ - MANCATA INDICAZIONE SPECIFICA DELLE RAGIONI DI MANCATO SUPERAMENTO DELLA PROVA - ILLEGITTIMITA' DEL RECESSO - PROCEDIMENTO D'URGENZA - AMMISSIBILITÀ


Una lavoratrice in stato di gravidanza licenziata durante il periodo di prova ricorreva in via d'urgenza al Giudice del lavoro di Bologna lamentando: a) che il patto di prova era stato sottoscritto successivamente all'inizio della prestazione lavorativa; b) che nel contratto non erano state indicate le mansioni oggetto della prova; c) che lo stato di gravidanza era conosciuto dal datore di lavoro, il quale la aveva licenziata in base a generiche contestazioni. Il Giudice del Tribunale di Bologna non ha ritenuto fondati i primi due rilievi: quanto al primo perché non risultata la circostanza; quanto al secondo perché ritenuto sufficiente, ai fini della validità del patto di prova, il richiamo al CCNL nel contratto individuale e l'indicazione nello stesso «di addetta a mansioni amministrative di segreteria generale». Rispetto a tale ultima affermazione non ci si può esimere dall'osservare che, al contrario, secondo la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, la lettera di assunzione deve contenere una specifica (e non generica) indicazione delle mansioni in relazione alle quali l'esperimento deve svolgersi (v., tra le tante, Cass. 30.10.2001, n. 13525; Cass. 18.11.2000, n. 14950; Cass. 22.3.2000, n. 3451; Cass. 24.12.1999, n. 14538; Cass. 26.5.1995 n. 5811) dovendo anche l'eventuale richiamo al contratto collettivo essere riferito alla nozione più dettagliata contenuta nella scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali (Cass. 18.11. 2000, n. 14950) Ma la parte più interessante del provvedimento d'urgenza (che ha accolto l'istanza di reintegrazione) è certamente quella relativa al terzo rilievo, rispetto al quale il Magistrato esordisce partendo dalla considerazione «che in forza della sentenza n. 172/1996 della Corte Costituzionale è stato eliminato dall'ordinamento il divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza, durante il periodo di prova». E' infatti vero che la Corte Costituzionale, con sentenza 31.5.1996 n.172, aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 2 co. 3 legge 30.12.1971, n. 1204, nella parte in cui non prevedeva l'inapplicabilità del divieto di licenziamento nel caso di recesso per esito negativo della prova. Conseguentemente l'art. 54 n. 3 lett. D) del D.Lgsl.26.3.2001, n. 151 (Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) ha espressamente inserito, tra i casi di inapplicabilità del divieto di licenziamento, l'ipotesi di "esito negativo della prova", aggiungendo però che «resta fermo il divieto di discriminazione di cui all'art. 4 della Legge 10.4.1991 n. 125 e successive modificazioni». Secondo il Tribunale di Bologna «se il datore di lavoro conosce lo stato di gravidanza della lavoratrice, come nel caso in esame, dovrà adeguatamente motivare il licenziamento in ragione del mancato superamento del periodo di prova. Tale onere di motivazione deve essere interpretato nel senso che il datore di lavoro deve indicare specificatamente e dettagliatamente le ragioni del mancato superamento del periodo di prova, in modo tale da consentire alla lavoratrice una compiuta difesa sui punti oggetto delle contestazioni, ed al Giudice di valutare la effettività e la sussistenza di tali ragioni». Ritenendo che, nel caso in esame, l'azienda avesse indicato in modo generico gli addebiti contestati, il Giudice ha considerato sussistere il fumus boni iuris della illegittimità del licenziamento, ravvisando l'ulteriore requisito - per l'accoglimento del ricorso d'urgenza - del danno grave e irreparabile, nella documentata circostanza che la lavoratrice viveva sola: «ne consegue che la stessa non è in grado di provvedere al proprio mantenimento ed al mantenimento del nascituro posto che le possibilità di reperire nuova occupazione nel periodo di gestazione sono pressoché nulle»




Tribunale di Bologna > Tutela della lavoratrice
Data: 25/05/2000
Giudice: Pugliese
Tipo Provvedimento: Decreto
Numero Provvedimento: -
Parti: Buffa / Poste Italiane SpA
MANCATA ASSUNZIONE PER CAUSA DI GRAVIDANZA - COMPORTAMENTO DISCIMINATORIO - SUSSISTENZA - PROVVEDIMENTO D'URGENZA COSTITUTIVO DEL RAPPORTO


Con telegramma 29 gennaio 2000 la società Poste italiane SpA invitava una lavoratrice, che a suo tempo aveva presentato domanda di assunzione a tempo determinato, a contattare l'azienda "al fine di accertare il possesso e la veridicità dei requisiti" dichiarati e procedere, in caso di esito positivo, all'assunzione. Peraltro nel corso della visita medica preassuntiva di idoneità da parte del medico competente, quest'ultimo chiedeva alla lavoratrice se fosse in stato di gravidanza, ed avutane risposta affermativa la dichiarava "non idonea al sollevamento di pesi superiori ai cinque chilogrammi ed alla adibizione a turni notturni"; conseguentemente la società rifiutava l'assunzione. La lavoratrice - che, tra l'altro, il giorno successivo si era presentata alla visita già prenotata presso l'Azienda USL Città di Bologna ed era stata dichiarata "idonea alle mansioni proprie dell'Area operativa dell'Ente Poste Italiane" - conveniva in giudizio la società con ricorso proposto ai sensi dell'art. 15 della legge n. 903/1977, lo speciale procedimento sommario previsto dalla legge n. 903/77 sulla falsariga dell'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, lamentando la violazione dell'art. 1 della legge n. 903/1977 che vieta espressamente la discriminazione nell'accesso al lavoro delle donne in gravidanza. La società si costituiva negando di essere stata a conoscenza dello stato di gravidanza, e comunque giustificando la mancata assunzione con la "certificata inidoneità ai compiti richiesti". Il Giudice del lavoro, accertando il "carattere palesemente discriminatorio" della mancata assunzione e la conseguente violazione delle disposizioni di legge citate, ordinava alle Poste Italiane di cessare il comportamento illegittimo nonché di rimuoverne gli effetti dando attuazione al rapporto di lavoro, inquadrando l'attrice in mansioni rientranti nell'area operativa confacenti alle condizioni di salute ed allo stato della stessa




Tribunale di Bologna > Tutela della lavoratrice
Data: 10/04/2007
Giudice: Coco
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 155/07
Parti: Ara S. + altri /Prefettura di Bologna; Ministero dell’Interno
TRASFERIMENTO – MODIFICA ORARIO DI LAVORO – LAVORO DOMENICALE - LAVORATRICE MADRE


Art. 700 c.p.c

Art. 37 Cost.

art. 9 della legge n. 53/2000

Un lavoratrice madre, dipendente della Upim S.r.l. di Bologna, in conseguenza della chiusura di un punto vendita, dove ella era addetta, veniva trasferita presso un altro punto vendita della medesima città.

Sulla base di un accordo sindacale, poi, sottoscritto poco prima del trasferimento, venivano assicurate alla lavoratrice le medesime condizioni contrattuali acquisite e il medesimo orario di lavoro, disposto in una fascia oraria mattutina tra le ore 8,45 e le ore 12,45 .

Tuttavia, il primo giorno di lavoro presso la nuova sede, alla lavoratrice, non le veniva consentito di svolgere la sua regolare prestazione lavorativa, se prima non avesse accettato di sottoscrivere una comunicazione riguardante la modifica dell’orario di lavoro, che prevedeva la sua presenza presso il nuovo punto vendita, nelle ore pomeridiane e nelle giornate domenicali .

In ragione della difficile situazione familiare in cui versava la lavoratrice – genitore unico affidatario di minore di meno di tre anni di età, supportata nel compito dai sevizi sociali per disposizione del Tribunale per i minorenni, con frequenza da parte della figlia di asilo nido estesa all’orario 7,30/ 17,50 – ella conveniva in giudizio, con un procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., il proprio datore di lavoro per far accertare l’illegittimità del comportamento datoriale e per il riconoscimento del diritto al mantenimento di un orario di lavoro compatibile con le esigenze di madre.

Il dott. Coco, Giudice del Tribunale del lavoro di Bologna, con provvedimento del 10.4.2007 comunicato in data 13.4.2007, accoglieva il ricorso proposto dalla lavoratrice e imponeva all’Upim S.r.l. di assegnarle un orario di lavoro nella fascia oraria tra le 9 le 16 (ossia compatibile con la presenza della bimba all’asilo) ed escludendo l’obbligo del lavoro domenicale.

Il Giudice riteneva che le condizioni personali della lavoratrice, inerenti alla necessità di accudire e di gestire la figlia, integravano a pieno i presupposti dell’attualità, gravità ed irreparabilità del danno, necessari per l’accoglimento del ricorso d’urgenza .

In particolare, il magistrato, fondava la propria decisione richiamando i principi di buona fede e correttezza che presiedono il rapporto di lavoro, e quelli enunciati dall’art. 9 della legge n. 53/2000 per incentivare le misure a sostegno della maternità sotto il profilo della flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro .

Soprattutto, il Giudice, si ispirava, con la propria decisione, al principio previsto dall’art. 37 della Costituzione che sancisce che “le condizioni di lavoro devono consentire alla donna lavoratrice l’adempimento delle sue essenziali funzioni familiari e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” .

Sulla base dell’applicazione di detti principi, il dott. Coco, ha ritenuto che le esigenze delle madre lavoratrice dovevano prevalere su quelle organizzative del datore di lavoro, ciò anche in ragione del fatto che una diversa collocazione oraria della prestazione lavorativa non avrebbe comportato per il datore di lavoro insuperabili difficoltà organizzative.




Tribunale di Bologna > Tutela della lavoratrice
Data: 02/07/2008
Giudice: Coco
Tipo Provvedimento: Ordinanza
Numero Provvedimento:
Parti: A. M. e A. O./ Giacchieri S.a.s. di Antonio Ferrare e C
LAVORATRICE MADRE – DEQUALIFICAZIONE PROFESSIONALE – ASSEGNAZIONE FERIE FORZATE - COMPORTAMENTO DISCRIMINATORIO: SUSSISTENZA





Tribunale di Bologna > Tutela della lavoratrice
Data: 24/05/2010
Giudice: Coco
Tipo Provvedimento: Ordinanza
Numero Provvedimento:
Parti: Consigliera di Parità per delega di S.C. – P. s.n.c.
DISCRIMINAZIONE DI GENERE ATTUATA AL RIENTRO DALLA MATERNITA’– IMPUGNAZIONE TRASFERIMENTO E UNILATARALE MODIFICA DELL’ORARIO – RISARCIMENTO DANNI EXTRAPATRIMONIALI.


Una commessa dipendente di una società proprietaria di due negozi, l’uno in Bologna e l’altro in Casalecchio di Reno,  era assegnata al tale secondo negozio,  che osserva orario continuato, in regime part time a 33 ore settimanali su turni. 

Ella doveva assentarsi dal lavoro per disturbi connessi al suo stato di gravidanza, e chiedeva l’interdizione anticipata dal lavoro in ragione delle mansioni affidatele, dovendo ricorrere all’intervento della DPL e della AUSL – in mancanza di collaborazione da parte della società datrice di lavoro. La anticipazione del congedo obbligatorio veniva disposta dagli enti preposti. 

Al termine del congedo parentale facoltativo,  la lavoratrice avrebbe dovuto riprendere servizio. La società datrice di lavoro le chiedeva dapprima di posticipare il rientro e fruire delle ferie e dei permessi maturati, richiesta alla quale ella consentiva. Ulteriore richiesta di fruire di ferie – nonostante l’esaurimento di tutte quelle maturate- le veniva reiterata alla scadenza, comunicandole che al termine ella avrebbe dovuto riprendere servizio nell’altro punto vendita, più distante dal suo domicilio,   che osserva un orario di lavoro spezzato, ciò che avrebbe comportato la necessità – per la lavoratrice - di ampliare il tempo della sua assenza dal domicilio per rispettare l’orario di lavoro.

Ella impugnava sia la illegittimità della collocazione  “forzosa” in ferie per un ulteriore periodo che   la illegittimità del provvedimento di trasferimento comunicatole verbalmente, ed offriva la prestazione lavorativa.

Presentatasi in servizio,  al termine del periodo di ferie forzatamente assegnatole, nel negozio ove aveva sempre prestato la sua attività,  non veniva ammessa al lavoro. Si rivolgeva ai carabinieri per avere prova della circostanza La situazione venutasi a determinare le provocava crisi di insonnia, tachicardia, disturbi dell’umore. La società datrice di lavoro formalizzava il suo trasferimento ad altro negozio per pretesa “incompatibilità ambientale. La lavoratrice si rivolgeva all’ufficio della  Consigliera di Parità della Provincia di Bologna per avere tutela.

Con ricorso ai sensi dell’art. 36,  2°co. Del d.. lgs 198/2006 e segg. e dell’art.1 lett.b) del d. lgs. 25.1.2010 la Consigliera di parità, su delega della lavoratrice,  chiedeva che il Tribunale, accertata la condotta di discriminazione di genere posta in essere a danno della lavoratrice in relazione al suo status di madre, dichiarasse nullosiail trasferimento ad altra unità, che la unilaterale modifica dell’orario di lavoro, con condanna a ripristinare l’orario di lavoro in conformità al contratto esistente tra le parti, ed al risarcimento del danno  non patrimoniale, ordinandoal contempo la cessazione del comportamento illegittimo perché in violazione della normativa sulla parità di genere e la rimozione degli effetti.

Il Tribunale, rilevata la coincidenza delle iniziative datoriali con il rientro dalle assenze connesse alla maternità, ed evidenziato che il trasferimento e la modifica unilaterale dell’orario, che avrebbero comportato una dilatazione dei “tempi di lavoro” a discapito del tempo dedicabile alle funzioni di accudienza ed educazione del bambino erano,  sul piano oggettivo – rilevante ex art. 25 d. lgs. 198/2006 - manifestamente pregiudizievoli per la madre (oltre che in violazione dell’art. 71 del ccnl, che prevede articolazione consensuale dell’orario di lavoro); rilevato che la prova della pretesa incompatibilità ambientale era richiesta in termini generici e non era suffragata da alcuna contestazione risalente al periodo precedente l’ininterrotta assenza della lavoratrice, protrattasi oltre un anno, accoglieva la domanda della lavoratrice.

Il Tribunale ha applicato il principio secondo il quale,  ai sensi dell’art.4 del dlgs 125/91,   la discriminazione diretta di genere  rileva in termini oggettivi, connotati dal prodursi dell’effetto discriminatorio, indipendentemente da ogni valutazione soggettiva sull’intento discriminatorio correttamente comprendendo nella nozione di discriminazione sia gli atti di gestione del rapporto che i comportamenti del datore di lavoro che producano effetti discriminatori. Si rammenta che il Dlgs n.5 del 25 gennaio 2010,  modificando l’art.  25 del codice delle pari opportunità, amplia il concetto di discriminazione, includendovi ogni disparità di trattamento nell’accesso al lavoro, alla formazione, nella promozione ma anche nelle condizioni di lavoro, attuato attraverso qualsiasi  disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento.

Ed ha applicato l’orientamento giurisprudenziale emerso in ambito comunitario (cfr Corte di Giustizia 11.10.2007 C460/06)    secondo il quale deve sempre qualificarsi come discriminatorio l’atto di recesso datoriale che tragga le sue effettive origini e motivazioni  nello stato di maternità  o gravidanza di una lavoratrice, stante la necessità di ricomprendere nelle discriminazioni per ragioni di sesso anche quelle  connesse alla maternità (in tal senso Tribunale di Pisa 4.8.2008).

Sotto il profilo probatorio il Tribunale ha ritenuto la sufficienza di un quadro indiziario della esistenza di una discriminazione diretta di genere, conformemente alle previsioni dell’art. 1 del dlgs 11.4.2006 n.198 come modificato dal dlgs 25.1.2010 n.5 (attuazione della direttiva 2006/54/CE) a mente del quale “le disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso che abbia come conseguenza  o come scopo di compromettere o impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo